Autore: Stefano Urso

Ideologia

Ideologia: la guerra tra conservazione e progresso.

Attenzione: le parole che si riferiscono all’identità di genere non sono state automaticamente declinate al maschile.
Queste vengono fatte terminare con una “X” con l’intenzione di lasciare a chi legge la libertà d’interpretazione.

Sentiamo parlare di Ideologia quasi ogni giorno, soprattutto nei talk show. Giorgio Gaber la cita addirittura nel ritornello di una sua famosissima canzone.

Gaber la citava come intendeva Marx, cioè come una forma di falsa coscienza che legittimasse la dominanza tra gruppi. Qui però parliamo di Ideologia in maniera differente.

In psicologia, l’Ideologia  è considerata come

«un insieme coerente di atteggiamenti e valori, condiviso all’interno di un determinato gruppo, che sostiene le azioni di tale gruppo».
(De Witte, 2004)

In altre parole, è una visione di come interpretiamo il mondo, che descrive e spiega come il mondo è e dovrebbe essere. L’Ideologia non è solo una semplice descrizione di come vediamo il mondo e le persone che ci circondano, ma anche come vorremmo che quel mondo fosse e come quelle persone vorremmo si comportassero.

L’Orientamento Ideologico

Se volessimo fare un riassunto di tutte le visioni ideologiche delle persone riusciremmo a ricavarne due, in netto contrasto tra loro. Troveremmo che le persone si dividono in chi:

  • Richiede o resiste al cambiamento;
  • Accetta o rifiuta la diseguaglianza.

Abbiamo così, da una parte, chi resiste al cambiamento e rifiuta la diseguaglianza e chi, dall’altra, il cambiamento lo richiede e la diseguaglianza l’accetta.

Divisione molto simile alla classica dicotomia della visione politica italiana “destra-sinistra”. Nel linguaggio tecnico parliamo però di conservatorismo e progressismo.

Un esempio di contenuto conservatore. Estratto dalla pagina Facebook del partito Fratelli d’Italia

Sul piano socioculturale, per lx conservatorx è importantissimo il rispetto della tradizione. Ad esempio sono favorevoli alla divisione dei ruoli tra generi, all’educazione severa dex figlx, all’importanza dell’obbedienza e della dominanza sociale per mantenere ordine e giustizia. Lx progressistx, invece, sono più inclini a prendere le distanze dalla tradizione e a cercare un cambiamento. Ad esempio sono a favore dell’emancipazione della donna, della parità di genere, del rispetto dell’identità di genere e sessuale, della libertà dell’aborto e dell’eutanasia.

Sul piano economico, invece, lx conservatorx si oppongono all’intervento dello Stato in economia, enfatizzano la competizione e l’iniziativa personale, non vedono di buon occhio l’azione dei sindacati e, in generale, respingono l’idea che le differenze sociali derivino da una diseguaglianza delle opportunità offerte alle persone. In altre parole credono che il successo sociale sia la diretta causa dell’impegno personale. Lx progressistx, al contrario, rifiutano la diseguaglianza sociale ritenendola ingiusta e inaccettabile e sono favorevoli all’intervento di Stato e sindacati per ridurre il più possibile la diseguaglianza economica.

Un esempio di contenuto progressista. Estratto dalla pagina Facebook del partito Possibile
A cosa serve avere un’Ideologia

L’Ideologia riduce la nostra incertezza sul mondo, ci aiuta a fronteggiare l’ansia che ne deriva e mantiene stabile l’idea che noi abbiamo di noi stessx. È il nostro stesso bisogno di proteggere noi stessx e fronteggiare l’ansia da incertezza che ci fa interpretare ciò che vediamo ogni giorno come la conferma che la nostra ideologia sia quella corretta.

Ne consegue che ci sentiamo al sicuro quando l’ideologia viene confermata dai fatti e ci sentiamo ansiosx e vulnerabilx quando viene disconfermata. Ecco perché siamo molto motivatx a riaffermarla nel caso in cui la nostra visione del mondo sia in pericolo.

Pensiamo ad esempio alla violenza dei commenti sui social. Prendendo come spunto questa prospettiva, potremmo considerare i contenuti di molte reazioni di questo tipo − che sono spesso attacchi personali diretti o visioni della realtà completamente distorte e inventate − siano un modo per ristabilire una sicurezza sulla propria visione del mondo che non tollera l’accettazione del cambiamento e la diversità.

Curiosità
  • La ricerca psicologica sull’ideologia politica si è sviluppata da più di cinquant’anni partendo dagli studi sulla personalità autoritaria di Theodore Adorno;
  • Attualmente non esistono evidenze sull’esistenza di differenze di personalità tra conservatorx e progressistx.
  • Gran parte dellx studiosx in questo campo sono concordx nell’affermare che l’ideologia contemporanea possa essere studiata con esclusivo riferimento al conservatorismo politico.

Per approfondimenti scopri che cos’è la psicologia politica e di cosa si occupa.


Bibliografia:
  • Volpato, C. (2019). Le radici psicologiche della disuguaglianza. Gius. Laterza & Figli Spa.
  • Hogg, M. A., Vaughan, G. M., & Arcuri, L. (2016). Psicologia sociale: teorie e applicazioni. Pearson.
  • Catellani, P. (2011). Psicologia politica (pp. 1-267). Il mulino.
  • Major, B., & Kaiser, C. R. (2017). Ideology and the maintenance of group inequality. Group Processes & Intergroup Relations, 20(5), 582-592.
  • De Witte, H. (2004). Ideological orientation and values.
  • Middendorp, C. P. (1978). The structure of the progressive-conservative controversy: Attitudinal referents in the Netherlands, 1975. Acta Politica, 3, 355-370.

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etnocentrismo

Etnocentrismo: quando ci crediamo al centro dell’universo

Attenzione: le parole che si riferiscono all’identità di genere non sono state automaticamente declinate al maschile.
Queste vengono fatte terminare con una “X” con l’intenzione di lasciare a chi legge la libertà d’interpretazione.

Etnocentrismo è un termine che è stato coniato dal sociologo G.W Sumner (1907) e indica la tendenza a giudicare i membri, la struttura, la cultura e la storia di gruppi diversi dal proprio, utilizzando come riferimento i valori, le norme sociali e i costumi con i quali si è statx educatx. In altre parole è quando supervalutiamo la nostra cultura di appartenenza e svalutiamo quella altrui.

« …è la percezione in cui il proprio gruppo (di appartenenza) è il centro di tutto e tutti gli altri sono ridimensionati e valutati di conseguenza. Ogni gruppo alimenta il proprio orgoglio e vanità, si fregia di essere superiore, esalta le proprie divinità e disprezza gli estranei. Ogni gruppo pensa che le proprie credenze popolari siano le uniche giuste. L’etnocentrismo porta le persone a ingigantire e intensificare ogni aspetto delle proprie credenze popolari che le rende peculiari e diverse da quelle degli altri».
(Sumner, 1906)

Ciò che abbiamo appreso durante la nostra educazione diventa quindi il metro di giudizio insindacabile per erigere un muro tra noi e gli altri. Da una parte ci siamo “noi”, che abbiamo una cultura giusta, con tradizioni e costumi giusti; dall’altra ci sono “loro”, con una cultura strana e inconcepibile, con tradizioni e costumi incomprensibili ed eccentricamente immorali.

Etnocentrismo
Due culture a confronto, ma la mia è quella giusta. Da Facebook.

Theodor Adorno e i suoi colleghi (1950) aggiungono un pezzettino alla definizione di Sumner. Per loro sarebbe una tendenza inconsapevole, strettamente legata a come razionalizziamo la nostra visione del mondo, che si attiva in particolare quando i gruppi esterni svalutati (gli “altri”) sono l’espressione di una minoranza; cioè «di una componente della realtà sociale giudicata più debole rispetto a quella a cui si appartiene».

Questa riflessione ha portato Adorno a considerare l’Etnocentrismo una delle quattro dimensioni che compongono l’Autoritarismo insieme ad “Antisemitismo”, “Conservatorismo politico-economico” e “Tendenze antidemocratiche e fascismo potenziale”.

L’Etnocentrismo è tornato a essere facilmente riconoscibile non solo nei discorsi politici dex leader conservatorx ma anche nei commenti di odio molto diffusi nei social, soprattutto Facebook.

Etnocentrismo
La nostra cultura è una cosa seria. Da Facebook.

Il discorso politico odierno incoraggia molto l’Etnocentrismo. Riconoscerlo nelle dichiarazioni dex politicx è la chiave per capire come questx abbiano l’intenzione e le capacità di innescare nex cittadinx sentimenti di orgoglio nel percepire il prossimo come diverso e sbagliato. Questo purtroppo accade soprattutto sui social, dove la sanzione sociale è pressoché nulla.

Curiosità

L’Etnocentrismo viene misurato chiedendo di rispondere con un grado di accordo/disaccordo a domande come:

  • «I ne*ri hanno i loro diritti, ma è meglio tenerli nei loro quartieri e nelle loro scuole, ed evitare che abbiano troppi contatti con i bianchi»;
  • «Certe sette religiose che rifiutano di salutare la bandiera dovrebbero essere forzate a conformarsi a questa azione patriottica, oppure essere abolite».

Per approfondimenti scopri che cos’è la psicologia sociale e di cosa si occupa.


Bibliografia:
  • Brewer, M. B. (2005). Ethnocentrism and prejudice: A search for universals. In Social psychology of prejudice: historical and contemporary issues/edited by Christian S. Crandall, Mark Schaller. Lawrence, Kan.: Lewinian Press, c2005.. Lawrence, Kan.: Lewinian Press.
  • Sumner, W. G. (1906). Folkways: The Sociological Importance of Usages. Manners, Customs, Mores, and Morals, Ginn & Co., New York, NY.
  • Catellani, P. (2011). Psicologia politica. Il mulino.

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sosta selvaggia

Sosta selvaggia: perché scegliamo di parcheggiare male

La sosta selvaggia è un problema che attanaglia numerose città del suolo italiano, soprattutto nelle grandi città. Furgoncini che scaricano merci, cittadini che comprano qualcosa al volo o macchine in doppia fila sono solo alcuni esempi. La sosta selvaggia non è solo una violazione pura del codice della strada. La sosta fuori dagli spazi consentiti è un vero e proprio ostacolo alla mobilità di tutti i cittadini automuniti, ma non solo. È un ostacolo anche alla mobilità d’emergenza, come ad esempio il passaggio di ambulanze o a forme di mobilità ecologica, come la bicicletta. La sosta selvaggia non è solo un problema delle grandi città commerciali. È un problema anche per città che si stanno impegnando per fornire una viabilità più responsabile e un’alternativa più ecologica all’uso dell’auto. Se, da un lato, la sosta nelle grandi città per motivi commerciali viene giustificata dalla mancanza di spazi, anche un solo parcheggio su una pista ciclabile in qualsiasi territorio non può esserlo.

Parcheggiare male è un danno economico e psicologico

Un parcheggio su una pista ciclabile è potenzialmente un danno sia economico che psicologico. È un danno economico perché non permette l’utilizzo corretto di un progetto che ha avuto un costo per la città, ed è un danno psicologico per tutti quei cittadini che preferiscono un mezzo di trasporto alternativo, che hanno a cuore l’ambiente cittadino o che semplicemente non hanno la patente o vogliono farsi una passeggiata. Una sosta selvaggia su una pista ciclabile può essere percepita come una mancanza di rispetto verso tematiche ambientaliste e addirittura una forma di discriminazione degli automobilisti nei confronti di chi non lo è.

Questa piccola forma di dominanza sociale provoca frustrazione nel cittadino che non si sente tutelato e rispettato nel suo sforzo nel fare la propria parte “responsabile” nel ridurre lo smog, la quantità di auto in circolazione, nel mettere in generale i bisogni della collettività al pari dei propri. I fattori di frustrazione aumentano se consideriamo anche tutti gli aspetti legati alla sicurezza che l’utilizzo di uno spazio dedicato ai non-automobilisti dovrebbe garantire.

Foto: pexels.com

Colpa dei cittadini irresponsabili e ineducati?

Se cerchiamo una risposta semplice possiamo prendercela con il singolo cittadino irresponsabile, con la sua mancanza di rispetto nei confronti della collettività, la mancanza di pazienza nel cercare un parcheggio e nella sua strafottenza nel cercare di ottenere il massimo profitto con il minimo sforzo.

Possiamo poi prendercela anche con gli organi che sanzionano i comportamenti irregolari: le forze dell’ordine. La mancanza di controllo e del sanzionamento è certamente un buon motivo per i cittadini per non rispettare le regole senza la paura di essere puniti. La paura della punizione è il modo più semplice che conosciamo per disincentivare il non rispetto del codice della strada. Di conseguenza quando questo controllo manca, il cittadino sente di poterne approfittare. Come dice il proverbio: «Quando il gatto non c’è i topi ballano».

Ogni spazio deve comunicare il suo utilizzo

Che si progettino spazi in un appartamento, in un ufficio, in un parco o nell’intera città, è fondamentale che vengano riconosciuti dai potenziali fruitori di quegli spazi. Se creiamo una piccola stanza in un ufficio per le chiamate di lavoro, chi la utilizzerà si aspetta non solo che ci si possa entrare, ma che sia silenziosa e ben isolata dal rumore esterno. Ma non basta: dovrà essere ben riconoscibile anche a chi non la userà, in modo che non disturbi le persone all’interno. In altre parole, quella stanza deve essere riconosciuta come utilizzabile solo per determinate esigenze. Deve quindi essere ben chiaro a tutti lo scopo e l’importanza della sua esistenza.

Se progettiamo uno spazio per bambini e genitori al parco dobbiamo rendere ben evidente quale parte verrà a loro dedicata, inserendo per esempio un recinto con una porticina, dei giochi per bambini come scivoli e altalene o delle panchine sul perimetro dello spazio. Chi entrerà nel parco percepirà in maniera automatica e incontrovertibile che le cose colorate e dai tratti giocosi sono per i bambini e gli spazi per sedersi sono destinati a chi li controllerà. La stessa cosa vale per la progettazione di spazi per la viabilità. Pensiamo alle corsie per i taxi o le pensiline per le fermate degli autobus.

Ogni spazio deve gridare al potenziale utilizzatore come essere e non essere utilizzato. Ecco che ci vengono in aiuto i segni e le indicazioni; possiamo quindi utilizzare segnali, scritte con indicazioni e avvisi. È fondamentale mettersi nei panni degli utilizzatori e conoscere come utilizzeranno la propria percezione per interpretare i segnali ambientali. Maggiore sarà la chiarezza del segnale, maggiore sarà la probabilità che quello spazio verrà utilizzato correttamente e, di conseguenza, minore sarà la necessità di usare la paura della sanzione per guidare il comportamento.

E per le piste ciclabili? Vale la stessa cosa. Possiamo usare cartelli, indicazioni e simboli ma anche linee di colore diverse per delimitare lo spazio o rendere evidente la superficie dedicata. Ciò che è indispensabile è rendere quello spazio differenziabile da qualsiasi altro. In altre parole, la pista ciclabile deve essere diversa da un parcheggio contro ogni ragionevole dubbio. È necessario dunque non solo sanzionare il comportamento incorretto ma soprattutto mettere il cittadino nelle condizioni di prendere una decisione automatica senza che cada in errore o in abitudini consolidate.

Quando vediamo quindi una sosta selvaggia in una pista ciclabile chiediamoci in che modo questa zona comunica al cittadino il suo scopo.

Buon esempio di segnaletica sostenibile. Foto: freepik.com

Investire sul ‘pensiero pubblico’

Queste attenzioni sono insufficienti se non sono contornate da importanti investimenti allo studio dell’atteggiamento del cittadino nei confronti della cosiddetta “cosa pubblica”.

Alla segnaletica sostenibile (intesa come facilmente interpretabile e rispettosa dei bias cognitivi) si possono affiancare momenti di educazione al rispetto del benessere cittadino e alla sostenibilità, come giornate a tema con laboratori, giochi e interventi spot nelle scuole in cui si chiede, insomma, il coinvolgimento delle generazioni più giovani.

L’attenzione alla percezione del cittadino e l’educazione dal basso sono focus essenziali, sostenibili e inclusivi utili alla partecipazione attiva della cittadinanza al rispetto dell’ambiente cittadino. Mettere nelle condizioni il cittadino di essere parte attiva del benessere della città è anche il modo più economico e positivo per promuovere l’uso responsabile del proprio mezzo di trasporto, senza la necessità di ricorrere alla paura della sanzione e soprattutto comunicando che temi come il benessere, il rispetto dell’ambiente e la sostenibilità siano una responsabilità di tutti e non solo un impegno discutibile di una parte di cittadinanza particolarmente attenta o di una particolare corrente politica.

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diversity

Diversity cercasi: come scrivere annunci di lavoro inclusivi

Siamo sempre stati abituati a leggere annunci riportanti frasi come “cercasi ragazza di bell’aspetto” senza farci troppe domande. D’altronde ci sono ruoli lavorativi più adatti a uomini e altri a donne, no? Non proprio.
Da quando i temi sulla diversity si sono diffusi qualcosa è cambiato, ma non possiamo ritenerci soddisfatti. Oggi, per esempio, si utilizzano disclaimer – frasi di avvertimento – che riportano la dicitura:

«I candidati ambosessi (D.lgs n. 198/2006) sono invitati a leggere l’informativa privacy ai sensi degli artt. 13 e 14 del Reg. EU 679/2016 al seguente indirizzo»,

oppure

«L’offerta di lavoro si intende rivolta all’uno e all’altro sesso in ottemperanza al D.Lgs. 198/2006».


Questi esempi sono solo un piccolo passo verso l’inclusione di genere; purtroppo, però, portano con sé una velata discriminazione che li rendono buoni ma non del tutto sufficienti a dare l’impressione che la diversity sia un tema rilevante per l’azienda in cerca.
La frase disclaimer è un ottimo stratagemma, a patto che il resto dell’annuncio non riporti distintamente che si ricerca una “candidatA“, un “educatorE“, un’ “infermierA“, una “maestrA“. O che sia “giovane” o “madrelingua italiana”. Tutti aspetti che, apertamente o meno, discriminano fin da subito il lettore che rischierà di sentirsi escluso e stressato. Come se già la ricerca di lavoro non fosse di per sé un elemento di forte esclusione e stress.

Prima di vedere nel dettaglio come scrivere annunci inclusivi, vediamo perché è importante porre l’attenzione al tema della diversity fin dalla pubblicazione di annunci di lavoro.

diversity

6 motivi per cui è utile scrivere annunci inclusivi

1. Gli annunci servono a ricercare competenze

Le variabili che riguardano la diversity non dovrebbero essere oggetto di analisi. Ciò che ti interessa sono le competenze. Sentirsi uomo o donna, per esempio, non fa parte di queste.

2. La diversity è un buon biglietto da visita

Non basta sponsorizzare il Pride. Se dai l’impressione di essere inclusivo fin dall’annuncio anche chi non verrà selezionato sarà ambasciatore del tuo brand.

3. La diversity è il miglior biglietto da visita

Se sei inclusivo già dall’annuncio chi si candida saprà che all’interno dell’azienda si valorizza il capitale umano e che l’ufficio risorse umane si occupa anche di benessere fisico e ambientale e non solo di buste paga e buoni pasto.

4. Le parole possono far male

I candidati potrebbero sentirsi esclusi per via di caratteristiche che non riguardano aspetti che possono cambiare. Questo potrebbe essere una fonte di stress per chi legge.

5. L’inclusione dona speranza

La speranza di essere valutati per come si è adesso e non per come si è nati. Chi legge e non viene scelto può sperare di crescere ed essere selezionato in futuro.

6. In mancanza d’altro, la diversity fa la differenza

Se già sai che ricercare una determinata figura professionale sarà difficile (ad esempio per via di una RAL o una forma contrattuale al di sotto del mercato attuale), il candidato darà più importanza ai valori aziendali e sarà disponibile a ricevere anche meno in cambio di un posto di lavoro in cui potrà sentirsi accettato e vivere sereno.

Dopo aver delineato i benefici nell’adottare una politica aziendale attenta alla diversity e all’inclusività fin dall’annuncio di lavoro, possiamo dedicarci a vedere nel dettaglio alcuni consigli su come scriverli in maniera adeguata.

diversity

5 consigli su come scrivere un annuncio inclusivo

1. Usa gli asterischi per evitare di declinare gli aggettivi al maschile o al femminile

È stilisticamente più corretto che inserire alla fine di ogni parola “o/a”. In questo modo non dovrai scrivere più volte la stessa parola (es. “tutti i candidati e le candidate”) e non sarai costretto a fare preferenze di ordine per apparire “feminist friendly” (es. “tutte le candidate e tutti i candidati”): un’accortezza che è in realtà solo apparentemente inclusiva.

2. L’annuncio riservato a entrambi i sessi è impreciso

Quando si parla di “sesso” si fa riferimento agli organi sessuali. Siamo sicuri che gli annunci che pubblicherai saranno indirizzati direttamente alle mutande di chi ti legge?
Usa la parola “genere“. Ma togli la parola “entrambi”. Non esistono solo due generi. Il genere maschile e femminile sono due sfumature dell’essere che non necessariamente sono complementari. Dobbiamo includere anche l’assenza o la copresenza di entrambe.

3. Cerca persone

Non preferenze sessuali, livelli di melatonina, nazionalità, credi religiosi, gusto nel vestire o organi genitali. Scrivi chiaramente che cerchi “persone” con caratteristiche che riguardano hard e soft skills. Less is more.

4. Attenzione al sottile non-detto

Un esempio di ciò è scrivere che si ricerca qualcuno “madrelingua italiano”. È un aspetto apparentemente irrilevante, ma chi legge potrebbe comprendere che si ricerca qualcuno nato necessariamente in Italia. La nazionalità diventa in questo modo un fattore discriminatorio. Meglio scrivere che si ricerca una persona con un “livello madrelingua”. Questo accorgimento include chiunque abbia quella competenza, a prescindere da quale nazionalità abbia.

5. Non fare lo str*nzo

Stai cercando una persona iscritta alle categorie protette? Riportalo. Scrivere che non la si sta cercando è discriminatorio (oltre che da stronzi).

Ora che abbiamo fatto una descrizione della figura che stiamo ricercando con l’elenco delle competenze hard e soft passiamo al fantomatico disclaimer.

diversity

Ecco un esempio di disclaimer inclusivo da aggiungere alla fine:


«Le persone interessate possono inviare la propria candidatura con autorizzazione ai sensi del dlgs. 196/2003. La ricerca rispetta il d.lgs. 198/2006 ed è aperta a candidat* di qualsiasi orientamento o espressione di genere, orientamento sessuale, età, etnia e credo religioso. Il presente annuncio è stato ideato nel rispetto della diversity e dell’inclusività».


Oppure, proponi tu stesso una versione originale della frase intestandolo direttamente alla tua azienda. Quello che segue è un esempio di quello che scrive Microsoft alla fine di ogni annuncio:

«Microsoft is an equal opportunity employer and supports workforce diversity. All applications for vacant positions will be welcomed and will be considered on the relative merits of the applicant against the role profile for the position regardless of color, race, nationality, ethnic origin, sex, gender, sexual orientation, marital status, disability, parental responsibilities, age, religion, or belief».

Un po’ prolisso per i miei gusti ma non lascia spazio a fraintendimenti e veicola senza fronzoli che la diversity e l’inclusività sono valori fondanti dell’etica aziendale. Questo significa investire nell’impression management a beneficio del benessere aziendale e del capitale umano.

Tutto il testo è stato declinato al maschile con l’intenzione di rendere la lettura più veloce e fruibile.

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Fake news: 5 motivi per cui è difficile convincere chi ci crede

La continua ricerca di una verità assoluta è insito nel nostro DNA. Andare a caccia di informazioni sul mondo che ci circonda ci fa sentire più stabili, più sicuri e certi di poter immaginare il futuro prossimo. Possiamo così uscire dalla nostra caverna, cercarci un lavoro, fare la spesa, accudire i figli.
Le fake news, notizie contenenti informazioni volutamente fuorvianti e false, sono entrate a gamba tesa nella nostra appassionatissima ricerca di informazioni. Capire l’autenticità e l’autorevolezza di ciò che guida il nostro giudizio è diventato sempre più difficile e dispendioso. La continua esposizione alle fake news ha creato un’enorme confusione su cosa sia più reale e cosa no.

Tornare indietro a prima della loro iperdiffusione sembra impossibile. Ogni tentativo di far ricredere le persone sembra inutile e controproducente, con il rischio di mettere in atto una vera e propria violenza tra chi ci crede e chi no. Ma perché è così difficile convincere qualcuno che ha creduto a una fake news?

5 motivi per cui è così difficile convincere chi crede alle fake news

1. Le fake news ci rendono protagonisti

Le notizie false hanno il potere di dividere il mondo in due: chi ci crede e chi no. Si creano così due gruppi in conflitto. Pensiamo, per esempio, alle bufale sulla correlazione tra vaccini e autismo. Agli occhi di chi non ci crede gli altri sembrano degli sprovveduti, ignoranti e creduloni. Agli occhi di chi ci crede gli altri sembrano professoroni, servi di un potere che li rende ciechi alla realtà rivelata. Chi crede alle fake news si identifica molto con quella parte della popolazione che ha aperto gli occhi. Sente una forte identità che alimenta la propria autostima. Credere fuori dal coro diventa una forma di identificazione.

Inoltre, i temi delle fake news riguardano principalmente, non a caso, il conflitto tra questi due gruppi: il gruppo che ci crede, che ha capito l’inganno, contro chi non ci crede, servo di un potere soverchiante. Le notizie stesse hanno il potere di rendere chiunque protagonista con la propria visione del mondo.
Difendere queste notizie e queste visioni del mondo significa difendere noi stessi.

2. Le fake news vanno dritte al cuore

Gli argomenti non forniscono vere e proprie argomentazioni, ma suscitano facilmente quelle emozioni che più ci fanno agire: la rabbia e l’indignazione scaturite da attacchi a valori inviolabili. Pensiamo a bufale che riguardano, ad esempio, la commercializzazione della carne di cane in Europa.

I valori e le emozioni sono l’espressione più autentica di noi stessi. Attaccare una credenza legata alle fake news significa colpire direttamente i valori e le emozioni suscitate e, di conseguenza, la persona che le ha provate. Questo alimenta notevolmente la percezione di conflitto e attacco personale. In presenza di una discussione le argomentazioni sembreranno sempre futili e lontane da un contesto “reale” fatto di emozioni e valori intoccabili.

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3. Le fake news creano eroi

Le narrazioni fake non raccontano solo di scenari apocalittici dove chi crede è sempre la vittima. Nell’eterna guerra tra “noi” e “loro” si erge spesso un paladino che ha la miracolosa formula per eliminare facilmente tutti i mali raccontati. Inoltre, incarna tutte le caratteristiche che il lettore ha o vorrebbe avere: è uno del popolo oppresso, ha il carisma necessario per dire sempre ciò che pensa, non prova alcuna vergogna nel diffondere le stesse narrazioni fake e difende a spada tratta tutti i valori fondamentali minacciati. Pensiamo a leader politici come Trump o Salvini o guru della medicina o dell’alimentazione pronti a vendere la ricetta per la felicità.

Questi eroi hanno il potere di sovvertire le conclusioni nefaste del proprio popolo: dall’invasione di popoli criminali alla ciccia addominale. Quando ci si sente affini a un leader di questo tipo il grado di identificazione diventa ancora più forte. Attaccare il diffusore di fake news in persona significa attaccare tutto ciò a cui si crede, le proprie speranze, i propri compagni e la propria visione del mondo.

4. Le fake news ci danno sempre ragione

Il cervello umano non è in grado di comprendere e contenere tutta la complessità del mondo là fuori. Per sopravvivere cerchiamo di selezionare le informazioni che più ci sono utili. Questo processo di selezione, però, non è proprio preciso e oggettivo come quello di un computer. Le nostre idee, credenze, visioni ed esperienze influenzano il modo in cui vediamo il mondo. Verificare ciò che sappiamo già cercando informazioni in linea col nostro pensiero è estremamente semplice, veloce e gratificante. Chi non vorrebbe sempre aver ragione? Come ci sentiremmo se sapessimo che quei dubbi che avevamo sulle case farmaceutiche venissero confermati da un’intervista esclusiva a qualcuno del personale dal viso nascosto che ha un sacco di informazioni da rivelare?

Mettere in discussione ciò che si sa e percepisce è estremamente faticoso. In un mondo sempre più stressante, le informazioni accoglienti, semplici ed emotive hanno una corsia preferenziale nei nostri processi mentali e sono molto più dure a morire. Credere alle fake news richiede pochissimo sforzo e fornisce una fortissima difesa dalle opinioni e dai fatti disconfermanti.

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5. Le fake news siamo noi

Smettere di credere alle fake news significa perdere quella parte di sé che ha sempre creduto in un mondo alternativo mai esistito. Ammetterlo richiederebbe troppo sforzo e autocritica. È molto più semplice difendere sé stessi e il proprio gruppo di appartenenza che mettere tutto in discussione. Riuscireste ad ammettere di avere torto dopo aver discusso con parenti, amici e sconosciuti sui social su quanto sia ingiusto che degli immigrati ricevano 35 euro al giorno mentre gli italiani soffrono la fame e la disoccupazione?

Le fake news sono sempre esistite ed esisteranno sempre. La colpa della loro diffusione non è di chi ci crede. Tutti siamo indistintamente mossi dal bisogno di capire e conoscere il mondo. Credere alle fake news non è solo un discrimine tra chi ha le risorse mentali e scolastiche per difendersi e chi no. Anzi, questa è proprio la visione che alimenta il conflitto, aumenta la distanza e amplifica la forza di questo fenomeno.

C’è un ulteriore motivo bonus che mi sento di aggiungere:

6. È così difficile perché convincere è l’approccio sbagliato.

Ciò che ci fa uscire dal guscio sono le informazioni nuove. Ecco perché l’educazione è l’unica risposta efficace per ridurre le fake news.
Puntare l’attenzione su chi le crea e perché, sugli effetti economici e psicologici permette di abbassare il conflitto e spostare il focus su chi ha tutte le intenzioni di diffonderle e non sulle difficoltà di chi ci crede. Così facendo si possono individuare metodi, istituzioni e responsabilità utili a isolare e limitare il fenomeno.

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