etnocentrismo

Etnocentrismo: quando ci crediamo al centro dell’universo

Attenzione: le parole che si riferiscono all’identità di genere non sono state automaticamente declinate al maschile.
Queste vengono fatte terminare con una “X” con l’intenzione di lasciare a chi legge la libertà d’interpretazione.

Etnocentrismo è un termine che è stato coniato dal sociologo G.W Sumner (1907) e indica la tendenza a giudicare i membri, la struttura, la cultura e la storia di gruppi diversi dal proprio, utilizzando come riferimento i valori, le norme sociali e i costumi con i quali si è statx educatx. In altre parole è quando supervalutiamo la nostra cultura di appartenenza e svalutiamo quella altrui.

« …è la percezione in cui il proprio gruppo (di appartenenza) è il centro di tutto e tutti gli altri sono ridimensionati e valutati di conseguenza. Ogni gruppo alimenta il proprio orgoglio e vanità, si fregia di essere superiore, esalta le proprie divinità e disprezza gli estranei. Ogni gruppo pensa che le proprie credenze popolari siano le uniche giuste. L’etnocentrismo porta le persone a ingigantire e intensificare ogni aspetto delle proprie credenze popolari che le rende peculiari e diverse da quelle degli altri».
(Sumner, 1906)

Ciò che abbiamo appreso durante la nostra educazione diventa quindi il metro di giudizio insindacabile per erigere un muro tra noi e gli altri. Da una parte ci siamo “noi”, che abbiamo una cultura giusta, con tradizioni e costumi giusti; dall’altra ci sono “loro”, con una cultura strana e inconcepibile, con tradizioni e costumi incomprensibili ed eccentricamente immorali.

Etnocentrismo
Due culture a confronto, ma la mia è quella giusta. Da Facebook.

Theodor Adorno e i suoi colleghi (1950) aggiungono un pezzettino alla definizione di Sumner. Per loro sarebbe una tendenza inconsapevole, strettamente legata a come razionalizziamo la nostra visione del mondo, che si attiva in particolare quando i gruppi esterni svalutati (gli “altri”) sono l’espressione di una minoranza; cioè «di una componente della realtà sociale giudicata più debole rispetto a quella a cui si appartiene».

Questa riflessione ha portato Adorno a considerare l’Etnocentrismo una delle quattro dimensioni che compongono l’Autoritarismo insieme ad “Antisemitismo”, “Conservatorismo politico-economico” e “Tendenze antidemocratiche e fascismo potenziale”.

L’Etnocentrismo è tornato a essere facilmente riconoscibile non solo nei discorsi politici dex leader conservatorx ma anche nei commenti di odio molto diffusi nei social, soprattutto Facebook.

Etnocentrismo
La nostra cultura è una cosa seria. Da Facebook.

Il discorso politico odierno incoraggia molto l’Etnocentrismo. Riconoscerlo nelle dichiarazioni dex politicx è la chiave per capire come questx abbiano l’intenzione e le capacità di innescare nex cittadinx sentimenti di orgoglio nel percepire il prossimo come diverso e sbagliato. Questo purtroppo accade soprattutto sui social, dove la sanzione sociale è pressoché nulla.

Curiosità

L’Etnocentrismo viene misurato chiedendo di rispondere con un grado di accordo/disaccordo a domande come:

  • «I ne*ri hanno i loro diritti, ma è meglio tenerli nei loro quartieri e nelle loro scuole, ed evitare che abbiano troppi contatti con i bianchi»;
  • «Certe sette religiose che rifiutano di salutare la bandiera dovrebbero essere forzate a conformarsi a questa azione patriottica, oppure essere abolite».

Per approfondimenti scopri che cos’è la psicologia sociale e di cosa si occupa.


Bibliografia:
  • Brewer, M. B. (2005). Ethnocentrism and prejudice: A search for universals. In Social psychology of prejudice: historical and contemporary issues/edited by Christian S. Crandall, Mark Schaller. Lawrence, Kan.: Lewinian Press, c2005.. Lawrence, Kan.: Lewinian Press.
  • Sumner, W. G. (1906). Folkways: The Sociological Importance of Usages. Manners, Customs, Mores, and Morals, Ginn & Co., New York, NY.
  • Catellani, P. (2011). Psicologia politica. Il mulino.

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Sosta selvaggia: perché scegliamo di parcheggiare male

La sosta selvaggia è un problema che attanaglia numerose città del suolo italiano, soprattutto nelle grandi città. Furgoncini che scaricano merci, cittadini che comprano qualcosa al volo o macchine in doppia fila sono solo alcuni esempi. La sosta selvaggia non è solo una violazione pura del codice della strada. La sosta fuori dagli spazi consentiti è un vero e proprio ostacolo alla mobilità di tutti i cittadini automuniti, ma non solo. È un ostacolo anche alla mobilità d’emergenza, come ad esempio il passaggio di ambulanze o a forme di mobilità ecologica, come la bicicletta. La sosta selvaggia non è solo un problema delle grandi città commerciali. È un problema anche per città che si stanno impegnando per fornire una viabilità più responsabile e un’alternativa più ecologica all’uso dell’auto. Se, da un lato, la sosta nelle grandi città per motivi commerciali viene giustificata dalla mancanza di spazi, anche un solo parcheggio su una pista ciclabile in qualsiasi territorio non può esserlo.

Parcheggiare male è un danno economico e psicologico

Un parcheggio su una pista ciclabile è potenzialmente un danno sia economico che psicologico. È un danno economico perché non permette l’utilizzo corretto di un progetto che ha avuto un costo per la città, ed è un danno psicologico per tutti quei cittadini che preferiscono un mezzo di trasporto alternativo, che hanno a cuore l’ambiente cittadino o che semplicemente non hanno la patente o vogliono farsi una passeggiata. Una sosta selvaggia su una pista ciclabile può essere percepita come una mancanza di rispetto verso tematiche ambientaliste e addirittura una forma di discriminazione degli automobilisti nei confronti di chi non lo è.

Questa piccola forma di dominanza sociale provoca frustrazione nel cittadino che non si sente tutelato e rispettato nel suo sforzo nel fare la propria parte “responsabile” nel ridurre lo smog, la quantità di auto in circolazione, nel mettere in generale i bisogni della collettività al pari dei propri. I fattori di frustrazione aumentano se consideriamo anche tutti gli aspetti legati alla sicurezza che l’utilizzo di uno spazio dedicato ai non-automobilisti dovrebbe garantire.

Foto: pexels.com

Colpa dei cittadini irresponsabili e ineducati?

Se cerchiamo una risposta semplice possiamo prendercela con il singolo cittadino irresponsabile, con la sua mancanza di rispetto nei confronti della collettività, la mancanza di pazienza nel cercare un parcheggio e nella sua strafottenza nel cercare di ottenere il massimo profitto con il minimo sforzo.

Possiamo poi prendercela anche con gli organi che sanzionano i comportamenti irregolari: le forze dell’ordine. La mancanza di controllo e del sanzionamento è certamente un buon motivo per i cittadini per non rispettare le regole senza la paura di essere puniti. La paura della punizione è il modo più semplice che conosciamo per disincentivare il non rispetto del codice della strada. Di conseguenza quando questo controllo manca, il cittadino sente di poterne approfittare. Come dice il proverbio: «Quando il gatto non c’è i topi ballano».

Ogni spazio deve comunicare il suo utilizzo

Che si progettino spazi in un appartamento, in un ufficio, in un parco o nell’intera città, è fondamentale che vengano riconosciuti dai potenziali fruitori di quegli spazi. Se creiamo una piccola stanza in un ufficio per le chiamate di lavoro, chi la utilizzerà si aspetta non solo che ci si possa entrare, ma che sia silenziosa e ben isolata dal rumore esterno. Ma non basta: dovrà essere ben riconoscibile anche a chi non la userà, in modo che non disturbi le persone all’interno. In altre parole, quella stanza deve essere riconosciuta come utilizzabile solo per determinate esigenze. Deve quindi essere ben chiaro a tutti lo scopo e l’importanza della sua esistenza.

Se progettiamo uno spazio per bambini e genitori al parco dobbiamo rendere ben evidente quale parte verrà a loro dedicata, inserendo per esempio un recinto con una porticina, dei giochi per bambini come scivoli e altalene o delle panchine sul perimetro dello spazio. Chi entrerà nel parco percepirà in maniera automatica e incontrovertibile che le cose colorate e dai tratti giocosi sono per i bambini e gli spazi per sedersi sono destinati a chi li controllerà. La stessa cosa vale per la progettazione di spazi per la viabilità. Pensiamo alle corsie per i taxi o le pensiline per le fermate degli autobus.

Ogni spazio deve gridare al potenziale utilizzatore come essere e non essere utilizzato. Ecco che ci vengono in aiuto i segni e le indicazioni; possiamo quindi utilizzare segnali, scritte con indicazioni e avvisi. È fondamentale mettersi nei panni degli utilizzatori e conoscere come utilizzeranno la propria percezione per interpretare i segnali ambientali. Maggiore sarà la chiarezza del segnale, maggiore sarà la probabilità che quello spazio verrà utilizzato correttamente e, di conseguenza, minore sarà la necessità di usare la paura della sanzione per guidare il comportamento.

E per le piste ciclabili? Vale la stessa cosa. Possiamo usare cartelli, indicazioni e simboli ma anche linee di colore diverse per delimitare lo spazio o rendere evidente la superficie dedicata. Ciò che è indispensabile è rendere quello spazio differenziabile da qualsiasi altro. In altre parole, la pista ciclabile deve essere diversa da un parcheggio contro ogni ragionevole dubbio. È necessario dunque non solo sanzionare il comportamento incorretto ma soprattutto mettere il cittadino nelle condizioni di prendere una decisione automatica senza che cada in errore o in abitudini consolidate.

Quando vediamo quindi una sosta selvaggia in una pista ciclabile chiediamoci in che modo questa zona comunica al cittadino il suo scopo.

Buon esempio di segnaletica sostenibile. Foto: freepik.com

Investire sul ‘pensiero pubblico’

Queste attenzioni sono insufficienti se non sono contornate da importanti investimenti allo studio dell’atteggiamento del cittadino nei confronti della cosiddetta “cosa pubblica”.

Alla segnaletica sostenibile (intesa come facilmente interpretabile e rispettosa dei bias cognitivi) si possono affiancare momenti di educazione al rispetto del benessere cittadino e alla sostenibilità, come giornate a tema con laboratori, giochi e interventi spot nelle scuole in cui si chiede, insomma, il coinvolgimento delle generazioni più giovani.

L’attenzione alla percezione del cittadino e l’educazione dal basso sono focus essenziali, sostenibili e inclusivi utili alla partecipazione attiva della cittadinanza al rispetto dell’ambiente cittadino. Mettere nelle condizioni il cittadino di essere parte attiva del benessere della città è anche il modo più economico e positivo per promuovere l’uso responsabile del proprio mezzo di trasporto, senza la necessità di ricorrere alla paura della sanzione e soprattutto comunicando che temi come il benessere, il rispetto dell’ambiente e la sostenibilità siano una responsabilità di tutti e non solo un impegno discutibile di una parte di cittadinanza particolarmente attenta o di una particolare corrente politica.

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Fake news: 5 motivi per cui è difficile convincere chi ci crede

La continua ricerca di una verità assoluta è insito nel nostro DNA. Andare a caccia di informazioni sul mondo che ci circonda ci fa sentire più stabili, più sicuri e certi di poter immaginare il futuro prossimo. Possiamo così uscire dalla nostra caverna, cercarci un lavoro, fare la spesa, accudire i figli.
Le fake news, notizie contenenti informazioni volutamente fuorvianti e false, sono entrate a gamba tesa nella nostra appassionatissima ricerca di informazioni. Capire l’autenticità e l’autorevolezza di ciò che guida il nostro giudizio è diventato sempre più difficile e dispendioso. La continua esposizione alle fake news ha creato un’enorme confusione su cosa sia più reale e cosa no.

Tornare indietro a prima della loro iperdiffusione sembra impossibile. Ogni tentativo di far ricredere le persone sembra inutile e controproducente, con il rischio di mettere in atto una vera e propria violenza tra chi ci crede e chi no. Ma perché è così difficile convincere qualcuno che ha creduto a una fake news?

5 motivi per cui è così difficile convincere chi crede alle fake news

1. Le fake news ci rendono protagonisti

Le notizie false hanno il potere di dividere il mondo in due: chi ci crede e chi no. Si creano così due gruppi in conflitto. Pensiamo, per esempio, alle bufale sulla correlazione tra vaccini e autismo. Agli occhi di chi non ci crede gli altri sembrano degli sprovveduti, ignoranti e creduloni. Agli occhi di chi ci crede gli altri sembrano professoroni, servi di un potere che li rende ciechi alla realtà rivelata. Chi crede alle fake news si identifica molto con quella parte della popolazione che ha aperto gli occhi. Sente una forte identità che alimenta la propria autostima. Credere fuori dal coro diventa una forma di identificazione.

Inoltre, i temi delle fake news riguardano principalmente, non a caso, il conflitto tra questi due gruppi: il gruppo che ci crede, che ha capito l’inganno, contro chi non ci crede, servo di un potere soverchiante. Le notizie stesse hanno il potere di rendere chiunque protagonista con la propria visione del mondo.
Difendere queste notizie e queste visioni del mondo significa difendere noi stessi.

2. Le fake news vanno dritte al cuore

Gli argomenti non forniscono vere e proprie argomentazioni, ma suscitano facilmente quelle emozioni che più ci fanno agire: la rabbia e l’indignazione scaturite da attacchi a valori inviolabili. Pensiamo a bufale che riguardano, ad esempio, la commercializzazione della carne di cane in Europa.

I valori e le emozioni sono l’espressione più autentica di noi stessi. Attaccare una credenza legata alle fake news significa colpire direttamente i valori e le emozioni suscitate e, di conseguenza, la persona che le ha provate. Questo alimenta notevolmente la percezione di conflitto e attacco personale. In presenza di una discussione le argomentazioni sembreranno sempre futili e lontane da un contesto “reale” fatto di emozioni e valori intoccabili.

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3. Le fake news creano eroi

Le narrazioni fake non raccontano solo di scenari apocalittici dove chi crede è sempre la vittima. Nell’eterna guerra tra “noi” e “loro” si erge spesso un paladino che ha la miracolosa formula per eliminare facilmente tutti i mali raccontati. Inoltre, incarna tutte le caratteristiche che il lettore ha o vorrebbe avere: è uno del popolo oppresso, ha il carisma necessario per dire sempre ciò che pensa, non prova alcuna vergogna nel diffondere le stesse narrazioni fake e difende a spada tratta tutti i valori fondamentali minacciati. Pensiamo a leader politici come Trump o Salvini o guru della medicina o dell’alimentazione pronti a vendere la ricetta per la felicità.

Questi eroi hanno il potere di sovvertire le conclusioni nefaste del proprio popolo: dall’invasione di popoli criminali alla ciccia addominale. Quando ci si sente affini a un leader di questo tipo il grado di identificazione diventa ancora più forte. Attaccare il diffusore di fake news in persona significa attaccare tutto ciò a cui si crede, le proprie speranze, i propri compagni e la propria visione del mondo.

4. Le fake news ci danno sempre ragione

Il cervello umano non è in grado di comprendere e contenere tutta la complessità del mondo là fuori. Per sopravvivere cerchiamo di selezionare le informazioni che più ci sono utili. Questo processo di selezione, però, non è proprio preciso e oggettivo come quello di un computer. Le nostre idee, credenze, visioni ed esperienze influenzano il modo in cui vediamo il mondo. Verificare ciò che sappiamo già cercando informazioni in linea col nostro pensiero è estremamente semplice, veloce e gratificante. Chi non vorrebbe sempre aver ragione? Come ci sentiremmo se sapessimo che quei dubbi che avevamo sulle case farmaceutiche venissero confermati da un’intervista esclusiva a qualcuno del personale dal viso nascosto che ha un sacco di informazioni da rivelare?

Mettere in discussione ciò che si sa e percepisce è estremamente faticoso. In un mondo sempre più stressante, le informazioni accoglienti, semplici ed emotive hanno una corsia preferenziale nei nostri processi mentali e sono molto più dure a morire. Credere alle fake news richiede pochissimo sforzo e fornisce una fortissima difesa dalle opinioni e dai fatti disconfermanti.

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5. Le fake news siamo noi

Smettere di credere alle fake news significa perdere quella parte di sé che ha sempre creduto in un mondo alternativo mai esistito. Ammetterlo richiederebbe troppo sforzo e autocritica. È molto più semplice difendere sé stessi e il proprio gruppo di appartenenza che mettere tutto in discussione. Riuscireste ad ammettere di avere torto dopo aver discusso con parenti, amici e sconosciuti sui social su quanto sia ingiusto che degli immigrati ricevano 35 euro al giorno mentre gli italiani soffrono la fame e la disoccupazione?

Le fake news sono sempre esistite ed esisteranno sempre. La colpa della loro diffusione non è di chi ci crede. Tutti siamo indistintamente mossi dal bisogno di capire e conoscere il mondo. Credere alle fake news non è solo un discrimine tra chi ha le risorse mentali e scolastiche per difendersi e chi no. Anzi, questa è proprio la visione che alimenta il conflitto, aumenta la distanza e amplifica la forza di questo fenomeno.

C’è un ulteriore motivo bonus che mi sento di aggiungere:

6. È così difficile perché convincere è l’approccio sbagliato.

Ciò che ci fa uscire dal guscio sono le informazioni nuove. Ecco perché l’educazione è l’unica risposta efficace per ridurre le fake news.
Puntare l’attenzione su chi le crea e perché, sugli effetti economici e psicologici permette di abbassare il conflitto e spostare il focus su chi ha tutte le intenzioni di diffonderle e non sulle difficoltà di chi ci crede. Così facendo si possono individuare metodi, istituzioni e responsabilità utili a isolare e limitare il fenomeno.

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Confirmation bias: ecco perché ho sempre ragione io!

Articolo originariamente pubblicato su theWise Magazine

Risulta ben noto come l’aspetto fisico fornisca un gran numero di informazioni utili nel formare giudizi sul prossimo, ma non è tutto così rose e fiori: il processo implicato nella formazione di impressioni è lungo e irto di bias (distorsioni). Un bias fra tutti è il conservatorismo (o bias di conferma),ovvero la tendenza ad andare a caccia di prove che confermino la nostra ipotesi di partenza arrivando perfino a ignorare la presenza di informazioni discordanti.

Ogni essere umano affronta la realtà sociale in cui è immerso con delle ipotesi, o aspettative. Questo permette a tutti noi di controllare l’ambiente che ci circonda, per esempio, aspettandoci come un altro essere umano potrebbe comportarsi in determinate circostanze. In questo modo possiamo pianificare il nostro comportamento e, tecnicamente, salvare la pelle. Queste ipotesi devono però affrontare la realtà oggettiva, quella densa di informazioni falsificanti: le ipotesi di partenza che abbiamo sono infatti stereotipi preconfezionati e falsi. Immaginatevi un prototipo di immigrato: questo sarà “sporco”, “violento”, “ignorante” e “pigro”. Questa ipotesi è statisticamente falsa, perché stiamo trattando un’impressione fornita da un esemplare come l’esemplare per eccellenza della categoria, e perciò basta un solo esemplare che non fornisca quelle informazioni per far cadere tutto il castello di impressioni. Questo, però, funzionerebbe se gli esseri umani fossero dotati di un pensiero logico razionale. Cosa succederebbe dunque se assistessimo a un immigrato che aiuta una vecchietta ad attraversare la strada?

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Succede che abbiamo sempre ragione noi

Ed è qui che entra in campo il bias di conferma. Nel nostro esempio vedremmo sì un immigrato che aiuta una vecchietta ma, nonostante sia un’informazione disconfermante, avremmo l’impressione che l’immigrato in questione voglia rubarle la pensione, e magari seguirla fino a casa per occupargliela. In alternativa possiamo consideralo come unico nel suo genere: l’unico immigrato buono e generoso che si distingue dagli altri cattivi e puzzolenti. Quest’ultimo processo è definito subtyping (o creazione del sottotipo): un tipo particolare di categorizzazione che considera l’esemplare come facente parte della categoria superiore (gli immigrati) ma a sé stante, in quanto “eccezione alla regola”. Un esempio pratico sono le vecchiette che si lamentano degli stranieri perché “son tutti ladri”, fatta eccezione per il filippino che lava loro la biancheria. In questo modo la nostra idea iniziale non solo è ben protetta, ma anche rinforzata. L’ipotesi rinforzata sarà a quel punto maggiormente disponibile in memoria e ancora più resistente al cambiamento.

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Credit: happyjar.com

Ipotesi, maledette ipotesi

Come abbiamo visto, le ipotesi di partenza “guidano” il modo in cui si cercano le informazioni e come queste vengono utilizzate. Nel dettaglio, il bias di conferma interviene a due livelli: sulla ricerca di informazioni, influenzando la quantità e il tipo di informazioni che si ricercano prima di giudicare, e sull’elaborazione di informazioni, influenzandone l’interpretazione e il ricordo. La cosa affascinante è che il bias è attivo sempre e comunque, contemporaneamente su entrambi i livelli. Ha effetto, insomma, anche quando ci si attiva personalmente nella ricerca di informazioni. Per esempio, tendiamo a porre maggiormente domande volte a verificare la veridicità della nostra ipotesi (bias della domanda), oppure a sovrastimare o sottostimare l’importanza di informazioni ricevute a seconda che siano coerenti o in contraddizione con la nostra ipotesi (bias della risposta).

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Vi sembra ancora una cosa aliena e distante dalla vostra realtà “oggettiva”?

Ancora un volta la ricerca psicologica ci da una mano

In un studio classico del 1980, Lord, Ross e Lepper dell’università di Stanford hanno selezionato un campione di studenti favorevoli o contrari alla pena di morte. A questi veniva presentato un articolo scientifico fittizio contenente (nella condizione 1) evidenze empiriche sull’efficacia della pena di morte o (nella condizione 2) evidenze sulla sua inefficacia. Successivamente veniva chiesto loro di giudicare gli articoli sulla bontà dello studio, quanto i dati dello studio fossero convincenti, quale potesse essere il potere deterrente della morte e, infine, quale fosse l’atteggiamento del partecipante nei confronti della pena di morte.

I risultati mostrarono che gli articoli valutati più positivamente (e quindi ritenuti più convincenti) erano quelli in linea con l’atteggiamento di partenza. In altre parole, chi era a favore della pena di morte valutava positivamente l’articolo che portava evidenze sull’efficacia della pena di morte e viceversa; chi invece leggeva un articolo in contrasto con il proprio atteggiamento riportava errori nella composizione dell’articolo o nella sua struttura. Questo esperimento dimostra come, innanzitutto, quello descritto sia un processo naturale, e, in secondo luogo, mette in evidenza la potenza del bias. Infatti non sono le ipotesi di partenza (atteggiamento verso la pena di morte) che vengono ristrutturate in funzione di elementi falsificanti (le evidenze empiriche), ma ciò che avviene è, in realtà, l’esatto opposto. Quando i partecipanti leggevano un articolo incoerente proteggevano la loro ipotesi screditando la fonte, e questo è qualcosa che sembra altamente controintuitivo: non è il dato che cambia l’ipotesi, ma è l’ipotesi che cambia il dato.

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A questo punto sorge spontanea un’altra domanda.

Ma perché succede?

Principalmente per due motivi: il primo è che non abbiamo il controllo sul processo, il secondo è che c’è un problema di sequenzialità. Per quanto riguarda il primo punto, non ricordiamo quando è stata creata la prima impressione perché semplicemente non siamo coscienti del processo, finendo per ricordarci solo del risultato di questo processo (l’ipotesi o impressione di partenza) ma non di come esso è stato creato; ci si “aggrappa” quindi solo all’ipotesi perché è l’unica che conosciamo. Per quanto riguarda il secondo punto, bisogna tenere in considerazione che, tra tutte le informazioni che riceviamo nel tempo, le prime sono quelle che si ritengono più importanti e diagnostiche. Il problema è che, razionalmente parlando, le informazioni che vengono acquisite per prime non sono necessariamente quelle più corrette e quelle acquisite successivamente dovranno per forza di cose essere confrontate con quelle già immagazzinate in precedenza.

Che lo si voglia o meno, quindi, abbiamo sempre ragione noi. Siamo disposti ad avere ragione anche a costo di ignorare informazioni falsificanti o addirittura di inventarcele di sana pianta. Gli esempi nella vita di tutti i giorni sono infiniti, ma c’è un ambiente particolare dove tutte queste ipotesi vengono confezionate e distribuite, rese facilmente digeribili e distribuibili su grande scala.

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La fucina di ipotesi: il ruolo dei media

È proprio attraverso i media che le ipotesi si sviluppano e si espandono a macchia d’olio, sotto forma di stereotipi che vengono veicolati alla velocità della luce e fatti passare come verità assolute. Abbiamo talk show dove ognuno deve necessariamente dire la sua, in cui si chiede l’opinione a esperti che esperti non sono e al popolo che vive di rimedi della nonna. La moda di far sentire cosa pensa “la gente” porta alla conseguente espansione dei preconcetti di cui abbiamo parlato. Pensate alla facilità con cui anche il giornalismo può, consapevolmente o meno, contribuire a tutto ciò: con il bias della domanda e con quello della risposta possiamo fondamentalmente ascoltare e capire solo quello che vogliamo, quello che ci fa più comodo. Ogni giorno vengono sparate sentenze gratuite contro gli immigrati, insulti ai partiti politici della fazione opposta, notizie su false dichiarazioni, bufale e chi più ne ha più ne metta. Si può quasi pensare che, maggiore il potere di espressione che viene fornito dal mezzo, maggiore sia il grado di diffusione di stereotipi che ne consegue.

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Credit: chainsawsuit.com

Il punto però è un altro: i media forniscono sempre più opinioni e sempre meno fatti incontrovertibili e falsificanti, come ricerche e spiegazioni scientifiche degli avvenimenti. Così facendo le opinioni, molto semplici e molto spesso già indirizzate (come diceva Gaber, alla «grande confusione deviante»), vengono considerate come verità assolute, rinforzate, maggiormente ricordate e utilizzate per giudicare informazioni successive, ed ecco che abbiamo malattie terminali che si possono guarire con il bicarbonato, rettiliani al governo e, paradossalmente, una psicologia che non è più una scienza.

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